LA PACE E L'ITALIA POSTBELLICA
Discorso di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi, 10 agosto 1946
Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che
tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia
qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l'essere citato
qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in
una lunga e faticosa elaborazione.
Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che
si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?
Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per
difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la
responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come
rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni
umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e
le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace
duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i
popoli che avete il compito di stabilire.
Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di
responsabilità impone in quest'ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è,
nei confronti dell'Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse almeno
uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro
avrebbe un compenso: l'Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del
penitente, nell'ONU, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d'accordo nel
proposito di bandire nelle relazioni internazionali l'uso della forza (come
proclama l'articolo 2 dello Statuto di San Francisco) in base al "principio
della sovrana uguaglianza di tutti i Membri", come è detto allo stesso articolo,
tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente "l'integrità territoriale e
l'indipendenza politica", tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza
speranza e conforto. L'Italia avrebbe subìto delle sanzioni per il suo passato
fascista, ma, messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritroverebbero
eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale.
Si può credere che sia così?
Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un
altro linguaggio.
In un congresso di pace è estremamente antipatico parlar d'armi e di strumenti
di guerra. Vi devo accennare, tuttavia, perché nelle precauzioni prese dal
trattato contro un presumibile riaffacciarsi di un pericolo italiano si è andati
tanto oltre da rendere precaria la nostra capacità difensiva connessa con la
nostra indipendenza.
Mai, mai nella nostra storia moderna le porte di casa furono così spalancate,
mai le nostre possibilità di difesa così limitate. Ciò vale per la frontiera
orientale come per certe rettifiche dell'occidentale ispirate non certo ai
criteri della sicurezza collettiva.
Nè questa volta ci si fa balenare la speranza di Versailles, cioè il proposito
di un disarmo generale, del quale il disarmo dei vinti sarebbe solo un anticipo.
Ma in verità più che il testo del trattato, ci preoccupa lo spirito: esso si
rivela subito nel preambolo.
Il primo considerando riguarda la guerra di aggressione e voi lo ritroverete
tale quale in tutti i trattati coi così detti ex satelliti; ma nel secondo
considerando che riguarda la cobelligeranza voi troverete nel nostro un
apprezzamento sfavorevole che cercherete invano nei progetti per gli Stati ex
nemici. Esso suona: "considerando che sotto la pressione degli avvenimenti
militari, il regime fascista fu rovesciato ... ".
Ora non v'ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu possibile
che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato
così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei
patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo d'immensi sacrifici, senza
l'intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l'abile
azione clandestina degli uomini dell'opposizione parlamentare antifascista (ed è
qui presente uno dei suoi più fattivi rappresentanti) che spinsero al colpo di
stato. Rammentate che il comunicato di Potsdam del 2 agosto 1945 proclama:
"L'Italia fu la prima delle Potenze dell'Asse a rompere con la Germania, alla
cui sconfitta essa diede un sostanziale contributo ed ora si è aggiunta agli
Alleati nella guerra contro il Giappone".
"L'Italia ha liberato se stessa dal regime fascista e sta facendo buoni
progressi verso il ristabilimento di un Governo e istituzioni democratiche".
Tale era il riconoscimento di Potsdam. Che cosa è avvenuto perché nel preambolo
del trattato si faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italiano che fu
protagonista? Forse che un governo designato liberamente dal popolo, attraverso
l'Assemblea Costituente della Repubblica, merita meno considerazione sul terreno
democratico?
La stessa domanda può venir fatta circa la formulazione così stentata ed agra
della cobelligeranza: "delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla
guerra contro la Germania". Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da
guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del
"Corpo Italiano di Liberazione", trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e
"last but non least" dei partigiani, autori soprattutto dell'insurrezione del
nord.
Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di
guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i
militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila
patrioti caduti nella lotta partigiana.
Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi
indietreggiarono lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo
quello che gli aerei non avevano abbattuto.
Il rapido crollo del fascismo dimostrò esser vero quello che disse Churchill:
"un uomo, un uomo solo ha voluto questa guerra" e quanto fosse profetica la
parola di Stimson, allora Ministro della guerra americano: "La resa significa un
atto di sfida ai tedeschi che avrebbe cagionato al popolo italiano inevitabili
sofferenze".
Me è evidente che, come la prefazione di un libro, anche il preambolo è stato
scritto dopo il testo del Trattato, e così bisognava ridurre, attenuare il
significato della partecipazione del popolo italiano ed in genere della
cobelligeranza perché il preambolo potesse in qualche maniera corrispondere agli
articoli che seguono.
Infatti dei 78 articoli del trattato la più parte corrisponde ai due primi
considerando, cioè alla guerra fascista e alla resa: nessuno al considerando
della cobelligeranza, la quale si ritiene già compensata coll'appoggio promesso
all'Italia per l'entrata nell'ONU; compenso garantito anche a Stati che
seguirono o poterono seguire molto più tardi l'esempio dell'Italia antifascista.
Il carattere punitivo del trattato risulta anche dalle clausole territoriali. E
qui non posso negare che la soluzione del problema di Trieste implicava
difficoltà oggettive che non era facile superare. Tuttavia anche questo problema
è stato inficiato fin dall'inizio da una psicologia di guerra, da un richiamo
tenace ad un presunto diritto del primo occupante e dalla mancata tregua fra le
due parti più direttamente interessate.
Mi avete chiamato a Londra il 18 settembre 1945. Abbandonando la frontiera
naturale delle Alpi e per soddisfare alle aspirazioni etniche jugoslave, proposi
allora la linea che Wilson aveva fatta propria quando, il 23 aprile 1919, nella
Conferenza della Pace a Parigi invocava "una decisione giusta ed equa, non già
una decisione che eternasse la distinzione tra vincitori e vinti".
Proponevamo inoltre che il problema economico della Venezia Giulia venisse
risolto internazionalizzando il porto di Trieste e creando una collaborazione
col porto di Fiume e col sistema ferroviario Danubio-Sava-Adriatico.
Era naturalmente inteso che si dovesse introdurre parità e reciprocità nel
trattamento delle minoranze, che Fiume riavesse lo status riconosciuto a
Rapallo, che il carattere di Zara fosse salvaguardato.
Il giorno dopo, Signori Ministri, avete deciso di cercare la linea etnica in
modo che essa lasciasse il minimo di abitanti sotto dominio straniero; a tale
scopo disponeste la costituzione di una Commissione d'inchiesta. La commissione
lavorò nella Venezia Giulia per 28 giorni. Il risultato dell'inchiesta fu tale
che io stesso, chiamato a Parigi a dire il mio avviso il 3 maggio 1946, ne
approvai, sia pure con alcune riserve, le conclusioni di massima. Ma i
rappresentanti jugoslavi, con argomenti di sapore punitivo, sul possesso totale
della Venezia Giulia e specie di Trieste. Cominciò allora l'affannosa ricerca
del compromesso e, quando lasciai Parigi, correva voce che gli Anglo-Americani,
abbandonando le linee etniche, si ritirassero su quella francese.
Questa linea francese era già una linea politica di comodo, non più una linea
etnica nel senso delle decisioni di Londra, perché rimanevano nel territorio
slavo 180.000 italiani e in quello italiano 59.000 slavi; soprattutto essa
escludeva dall'Italia Pola, e le città minori della costa istriana occidentale
ed implicava quindi per noi una perdita insopportabile. Ma per quanto
inaccettabile, essa era almeno una frontiera italo-jugoslava che aggiudicava
Trieste all'Italia.
Ebbene, che cosa è accaduto sul tavolo del compromesso durante il giugno, perché
il 3 luglio il Consiglio dei Quattro rovesciasse le decisioni di Londra e
facesse della linea francese non più la frontiera tra Italia e Jugoslavia, ma
quella di un cosiddetto "Territorio libero di Trieste" con particolare statuto
internazionale? Questo rovesciamento fu per noi una amarissima sorpresa e
provocò in Italia la più profonda reazione. Nessun sintomo, nessun cenno poteva
autorizzare gli autori del compromesso a ritenere che avremmo assunto la benché
minima corresponsabilità di una simile soluzione che incide nelle nostre carni e
mutila la nostra integrità nazionale. Appena avuto sentore di tale minaccia il
30 giugno telegrafavo ai Quattro Ministri degli Esteri la pressante preghiera di
ascoltarmi dichiarando di volere assecondare i loro sforzi per la pace, ma
mettendoli in guardia contro espedienti che sarebbero causa di nuovi conflitti.
La soluzione internazionale, dicevo, com'è progettata, non è accettabile e
specialmente l'esclusione dell'Istria occidentale fino a Pola causerà una ferita
insopportabile alla coscienza nazionale italiana.
La mia preghiera non ebbe risposta e venne messa agli atti. Oggi non posso che
rinnovarla, aggiungendo degli argomenti che non interessano solo la nostra
nazione, ma voi tutti che siete ansiosi della pace del mondo.
Il Territorio libero, come descritto dal progetto, avrebbe una estensione di 783
kmq. con 334.000 abitanti concentrati per 3/4 nella città capitale. La
popolazione si comporrebbe, secondo il censimento del 1921, di 266.000 italiani,
49.501 slavi, 18.000 altri. Lo Stato sarebbe tributario della Jugoslavia e
dell'Italia in misura eguale per la forza elettrica, comunicherebbe con il suo
hinterland con tre ferrovie slave ed una italiana. Le spese necessarie per il
bilancio ordinario sarebbero da 5 a 7 miliardi; il gettito massimo dei tributi
potrebbe toccare il miliardo.
Trieste ed il suo porto dall'Italia hanno avuto dal 1919 al 1938 larghissimi
contributi per opere pubbliche e le industrie triestine come i cantieri, le
raffinerie, le fabbriche di conserve, non solo sorte in seguito a facilitazioni,
esenzioni fiscali, sussidii (anche le linee di navigazione), ma sono vincolate
tutte ai mercati italiani. Già ora il trattato proietta la sua ombra
sull'attività produttiva di Trieste perché non si crede alla vitalità della
sistemazione e alla sua efficienza economica. Come sarà possibile, obiettano i
triestini, mantenere l'ordine in uno Stato non accetto né agli uni né agli
altri, se oggi ancora gli Alleati, che pur vi mantengono forze notevoli, non
riescono a garantire la sicurezza personale?
Il problema interno è forse il più grave. Ogni gruppo etnico chiederebbe
soccorso ai suoi e le lotte si complicherebbero col sovrapporsi del problema
sociale, particolarmente acuto e violento in situazioni come quelle di un
emporio commerciale e industriale. Come farà l'ONU ad arbitrare e ad evitare che
le lotte politiche interne assumano carattere internazionale?
Voi rinserrate nella fragile gabbia d'uno statuto i due contendenti con razioni
scarse e copiosi diritti politici e voi pretendete che non vengano alle mani e
non chiamino in aiuto gli slavi, schierati tutti all'intorno a 8 chilometri di
distanza, e gli italiani che tendono il braccio attraverso un varco di due
chilometri?
Ovvero pensate davvero di fare del porto di Trieste un emporio per l'Europa
Centrale? Ma allora il problema è economico e non politico. Ci vuole una
compagnia, un'amministrazione internazionale, non uno Stato; un'impresa con
stabili basi finanziarie, non una combinazione giuridica collocata sulle sabbie
mobili della politica!
Per correre il rischio di tale non durevole espediente, voi avete dovuto
aggiudicare l'81% del territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi (ed ancora
essi se ne lagnano come di un tradimento degli Alleati, e cercano di accaparrare
il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del nuovo Stato); avete
dovuto far torto all'Italia rinnegando la linea etnica, avete abbandonata alla
Jugoslavia la zona di Parenzo-Pola, senza ricordare la Carta Atlantica che
riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti
territoriali, anzi ne aggravate le condizioni stabilendo che gli italiani della
Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava che opteranno per conservare la
loro cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e dovranno trasferirsi
in Italia abbandonando la loro terra, le loro case, i loro averi, che più? i
loro beni potranno venire confiscati e liquidati, come appartenenti a cittadini
italiani all'estero, mentre l'italiano che accetterà la cittadinanza slava sarà
esente da tale confisca.
L'effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione dal Territorio
libero, 180.000 italiani rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia
(secondo il censimento del 1921) e che il totale degli italiani esclusi
dall'Italia, calcolando quelli di Trieste, è di 446.000; né per queste minoranze
avete minimamente provveduto, mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una
generosa revisione delle opzioni ed è già stato raggiunto un accordo su una
ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente.
A qual pro dunque ostinarsi in una soluzione che rischia di creare nuovi guai, a
qual pro voi vi chiuderete gli orecchi alle grida di dolore degli italiani
dell'Istria - ho presente una sottoscrizione di Pola - che sono pronti a
partire, ad abbandonare terre e focolari pur di non sottoporsi al nuovo regime?
Lo so, bisogna fare la pace, bisogna superare la stasi, ma se avete rinviato di
un anno la questione coloniale, non avendo trovato una soluzione adeguata, come
non potreste fare altrettanto per la questione giuliana? C'è sempre tempo per
commettere un errore irreparabile. Il Trattato sta in piedi anche se rimangono
aperte alcune clausole territoriali. E' una pace provvisoria: ma anche da
Versailles a Cannes si dovette procedere per gradi. Altre questioni rimangono
aperte o sono risolte nel Trattato negativamente. Non posso ritenere, per
esempio, che i nostri rapporti con la Germania si possano considerare definiti
con l'art. 67 di codesto Trattato, il quale impone all'Italia la rinuncia a
qualsiasi reclamo, compresi i crediti contro la Germania e i cittadini germanici
fino alla data dell'8 maggio 1945, dopo cioè che l'Italia era in guerra con la
Germania da diciannove mesi.
I nostri tecnici calcolano a circa 700 miliardi di lire, cioè a circa 3 miliardi
di dollari, la somma che possiamo reclamare dalla Germani per il periodo della
cobelligeranza; e noi ci dovremmo semplicemente rinunciare? Non può essere
questo un provvedimento definitivo; bisognerà pur riparlarne quando si farà la
pace con la Germania: e allora non è questo un altro argomento per provare che
il completo assestamento d'Europa non può avvenire che dopo la pace con la
Germania? Stabiliamo le basi fondamentali del Trattato; l'Italia accetterà di
fare i sacrifici che può.
Mettiamoci poi a tavolino, noi e gli jugoslavi in prima linea, e cerchiamo un
modo di vita, una collaborazione, perché senza questo spirito le formule del
Trattato rimarranno vuote.
Non è a dire con ciò che per tutto il resto il Trattato sia senz'altro
accettabile.
Alcune clausole economiche sono durissime. Così per esempio l'art. 69 che
concede ad ogni Potenza Alleata o Associata il diritto di sequestrare, ritenere
o liquidare tutti i beni italiani all'estero, salvo restituire la eventuale
quota eccedente i reclami delle Nazioni Unite. L'applicazione generale di tale
articolo avrebbe conseguenze insopportabili per la nostra economia. Ci
attendiamo che tali disposizioni vengano modificate soprattutto se - come non
dubito - si darà modo ai miei collaboratori di esprimersi a fondo su questo come
su ogni altro argomento, in seno alle competenti Commissioni. Così ancora
all'art. 62 ci si impone una rinuncia contraria al buon diritto e alle norme
internazionali, la rinuncia cioè a qualsiasi credito derivante dalle Convenzioni
sul trattamento dei prigionieri.
logica conseguenza della cobelligeranza è anche che a datare dal 13 ottobre 1943
lo spirito con cui devono essere regolati i rapporti economici tra noi e gli
Alleati sia diverso. Non si tratta più di spese di occupazione, previste
all'epoca dell'armistizio per un breve periodo, ma di spese di guerra sul fronte
italiano. Ad esse il Governo italiano vuole contribuire nei limiti delle sue
possibilità economiche, me nei modi che di tale capacità tengano conto.
In quanto alle riparazioni, pur essendo disposti a sopportare sacrifici,
dobbiamo escludere che si facciano gravare sull'economia italiana oneri
imprecisati e per un tempo indeterminato e nei riguardi dei territori ceduti o
liberati si dovrà tener conto degli enormi investimenti da noi fatti per opere
pubbliche per lo sviluppo culturale e materiale di tali Paesi. Se le clausole
del trattato ci venissero imposte nella loro totalità e crudezza, noi, firmando,
commetteremmo un falso perché l'Italia, nel momento attuale, con una diminuzione
dei salari reali di oltre il 50% e del reddito nazionale di oltre il 45, ha già
visto ridurre la sua capacità di produzione fino al punto da non poter
acquistare all'estero le derrate alimentari e le materie prime. Ulteriori
peggioramenti provocherebbero il caos monetario, l'insolvenza e la perdita della
nostra indipendenza economica. A che ci gioverebbe allora essere ammessi ai
benefici del Consiglio economico e sociale dell'ONU?
Prendiamo atto con soddisfazione che nella Conferenza dei Quattro - seduta del
10 maggio - la proposta di affidare all'Italia sotto forma di amministrazione
fiduciaria le sue colonie ha incontrato consensi. Confidiamo che tale assenso
trovi pratica applicazione nel momento di deliberare. In tale attesa, purché non
si chiedano rinunce preventive, non facciamo obbiezioni al rinvio né al
prolungamento dell'attuale regime di controllo militare in quei territori. Ma
noi ci attendiamo che l'amministrazione di quei territori durante l'anno di
proroga sia, in conformità della legge internazionale, affidata almeno per
un'equa parte ai funzionari italiani, sia pure sotto il controllo delle autorità
occupanti. E facciamo viva istanza perché decine e decine di migliaia di
profughi dalla Libia, Eritrea e Somalia che vivono in condizioni angosciose in
Italia o in campi di concentramento della Rhodesia o nel Kenya possano ritornare
alle loro sedi.
Circa le questioni militari, le nostre obbiezioni potranno più propriamente
essere esposte nella Commissione rispettiva. Basti qui riaffermare che la flotta
italiana, dopo essersi data tutta alla cobelligeranza e aver operato in favore
della causa comune per tre anni e fino a tutt'oggi sotto propria bandiera agli
ordini del Comando Supremo del Mediterraneo, non può oggi, per ovvie ragioni
morali e giuridiche, venir trattata come bottino di guerra. Ciò non esclude che
nello spirito degli accordi Cunningham - De Courten, essa contribuisca entro
giustificati limiti a restituzioni o compensi.
Signori Ministri, Signori Delegati,
per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il
pensiero dell'Italia sulle condizioni della sua pace, ed oggi ancora comparendo
qui nella veste di ex-nemico, veste che non fu mai quella del popolo italiano,
innanzi a Voi, affaticati dal lungo travaglio o anelanti alla conclusione, ho
fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola, onde sia
palese che siamo lungi dal voler intralciare ma intendiamo costruttivamente
favorire la vostra opera, in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del
mondo.
Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri
apparentemente contrastanti.
Da una parte egli deve esprimere l'ansia, il dolore, l'angosciosa preoccupazione
per le conseguenze del Trattato, dall'altra riaffermare la fede della nuova
democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento
del mondo operato con validi strumenti di pace.
Tale fede nutro io pure e tale fede sono venuti qui a proclamare con me i miei
due autorevoli colleghi, l'uno già Presidente del Consiglio, prima che il
fascismo stroncasse l'evoluzione democratica dell'altro dopoguerra, il secondo
Presidente dell'Assemblea Costituente Repubblicana, vittima ieri dell'esilio e
delle prigioni e animatore oggi di democrazia e di giustizia sociale: entrambi
interpreti di quell'Assemblea a cui spetterà di decidere se il Trattato che
uscirà dai vostri lavori sarà tale da autorizzarla ad assumerne la
corresponsabilità, senza correre il rischio di compromettere la libertà e lo
sviluppo democratico del popolo italiano.
Signori Delegati,
grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai
conclamati fini della guerra, cioè all'indipendenza e alla fraterna
collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessuna
concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella pace
che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni Paese che nella guerra
hanno combattuto e sofferto per una mèta ideale. Non sostate sui labili
espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi
instabili: guardate a quella mèta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per
raggiungerla.
E' in questo quadro di una pace generale e stabile, Signori Delegati, che vi
chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d'Italia: un popolo lavoratore
di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo
più giusto e più umano.